Non sono venuto a Roma da solo. Mi sono portato dietro una “spalla”. In realtà non volevo, è più corretto dire che qualcuno mi si è attaccato ad una spalla.
Di chi sto parlando? Del mio amico Cesare, ovviamente avvocato anche lui.
In effetti, a pensarci bene, noi avvocati abbiamo il brutto vizio di frequentare solo altri avvocati.
Forse perchè ci piace lagnarci del nostro lavoro anche fuori dallo studio, e ad una cena o ad un aperitivo non saremmo in grado di fare un discorso di senso compiuto per più di 5 minuti senza inserire qualche recriminazione professionale.
Provate a lamentarvi, con un architetto o con un fioraio, di dover “fare una 183 di fuoco”.
L’architetto vi chiederà immediatamente: “Ma è una posizione del kamasutra? Non la conosco”.
Il fioraio, pur di far vedere che la sa lunga, anche se una simile posizione non esiste, interverrà con l'aria dell'uomo di mondo, esclamando: “Ma sì architetto, venga qui che gliela spiego io. Le faccio un disegnino sul tovagliolo. Però, il nostro avvocato, che sporcaccione, eh, chi l’avrebbe mai detto.... Conosce anche la 183..... È roba da intenditori..... Solo in pochi sono riusciti a portarla a termine senza fare danni”.
Comunque, come dicevo, il mio attuale compagno di avventura è l’avvocato Cesare.
Cesare è un caro ragazzo, lo conosco da anni, e da anni gli ripeto che lui e il diritto non potranno mai andare d’accordo, per una questione di DNA.
Innanzitutto - e qui correggo un’inesattezza detta all’inizio - non è ancora avvocato, ma “praticante abilitato”, perchè ha ripetuto l’esame per non so più quante volte.
La sua tenacia è ammirevole, lui non demorde, e ogni anno, puntualmente, a dicembre, si ritrova a ritentare la sorte alla Mostra d’Oltremare (è lì che si fanno gli esami di avvocato a Napoli).
Ormai è diventato un’istituzione. Ogni tanto lo prendo in giro dicendogli: "Di questo passo, un giorno, la Mostra d’Oltremare organizzerà una ... mostra su di te". Dopo la quinta bocciatura non ha più apprezzato il mio umorismo.
Ma lui comunque non si scoraggia. Si sente avvocato dentro. Basti pensare che sul biglietto da visita si qualifica “Avv.” da 6 mesi prima della laurea.
Va detto però che se Cesare non riesce a superare l’esame, ovviamente c’è un perchè.
Il diritto non l’ha mai digerito, lo considera una perdita di tempo.
Ama ripetere che ci sono due categorie di avvocati: i “topi di biblioteca” e gli “avvocati di strada”.
Io sarei un topo di biblioteca, perchè mi piace il diritto, mi piace studiarlo, approfondire, leggere, scrivere atti, ecc.
Lui è un avvocato di strada, perchè ha capito che l’importante è (testuali parole) “stare in mezzo alla gente”, “farsi vedere”, “darsi visibilità”, “essere sempre in trincea”, “stare sul pezzo”, “essere in prima linea”, ecc. ecc.
A volte mi ripete “Sì tu puoi essere anche bravo in diritto, ma se te ne stai sempre chiuso in studio con la capa nel codice, chi lo sa che sei bravo? Tu e il codice. Che non è certo un potenziale cliente”.
Ineccepibile.
Un avvocato di strada, invece, non ha tempo per leggere, studiare, scrivere atti, .... lui è in giro, “nei giri che contano”, pranza con Tizio, prende il caffè con Caio, dà un consiglio al volo a Sempronio, si imbuca nelle assemblee di condominio sperando che qualcuno voglia fare causa, ...
Insomma, io e Cesare abbiamo due “punti di vista” molto differenti sulla professione forense.
Eppure siamo amici.
Forse perchè, nonostante io sia il “topo di biblioteca”, alla fine è sempre alla porta di questa biblioteca che viene a bussare.
Eh sì, perchè va detto che finora la sua filosofia di “avvocato da strada” ha prodotto, come unico risultato, che Cesare è letteralmente in mezzo a una strada.
Quelli che lui chiama “giri che contano” sono 2 carrozzieri con piccoli precedenti penali che ogni tanto gli passano qualche causa per sinistro stradale, il più delle volte di dubbia provenienza e autenticità.
Quando dice che è importante saper dare consigli volanti a destra e a manca (“perchè è così che il cliente - spluf! - abbocca, se vede l’avvocato che ttà-ttà gli dà la risposta”), si riferisce alla salumiera che, mentre affetta il Parmacotto, gli mostra una multa per divieto di sosta, gelosamente conservata come una reliquia sotto il Galbanino, salvo poi decidere che è meglio pagare (“Eehh Cesarì, poi devo pagare pure l’avvocato. Ah, il prosciutto è venuto 40 grammi in più, che faccio, lascio?”); oppure al proprietario del bar dove Cesare va a fare “public relation”, che gli parla dell’infiltrazione dal piano di sopra e poi lo liquida con un “Vabbè mò ci penso e casomai ti richiamo. Ah, per il caffè sono 80 centesimi, l’hai già fatto lo scontrino?”.
Perchè quello che Cesare non dice è che, ogni volta che ha dato uno dei suoi consigli “volanti” (“Ma sì, qui mandiamo una lettera, facciamo la messa in mora, questo lo contestiamo, poi quest’altro lo impugno io, fai fare a me che gli facciamo un culo così. Che fortuna che hai avuto a incontrare proprio me oggi”), e il tizio ha poi effettivamente deciso di procedere, la risposta è sempre stata la stessa: “Grazie per il consiglio Cesare, ora ho le idee più chiare sul da farsi. Oggi vado dal mio avvocato e gli riferisco tutto, così partiamo con la causa. Ah, ovviamente tu hai un caffè pagato”. Nei giorni più fortunati rimediava un cappuccino. In tanti anni di “consigli volanti”, però, non ha mai raggiunto il tanto agognato traguardo: una colazione completa. Ogni tanto, a questo proposito, fa un lungo sospiro, fissa il vuoto (o, in alternativa, le tette di una che sta passando) e, col tono sconsolato da vecchio avvocato stanco e disilluso, ripete: “Sono queste le vere delusioni della professione. Tanti consigli gratis ma mai un cornetto gratis”.
Ovviamente quando fa così si consola solo se gli offro la colazione.
Di chi sto parlando? Del mio amico Cesare, ovviamente avvocato anche lui.
In effetti, a pensarci bene, noi avvocati abbiamo il brutto vizio di frequentare solo altri avvocati.
Forse perchè ci piace lagnarci del nostro lavoro anche fuori dallo studio, e ad una cena o ad un aperitivo non saremmo in grado di fare un discorso di senso compiuto per più di 5 minuti senza inserire qualche recriminazione professionale.
Provate a lamentarvi, con un architetto o con un fioraio, di dover “fare una 183 di fuoco”.
L’architetto vi chiederà immediatamente: “Ma è una posizione del kamasutra? Non la conosco”.
Il fioraio, pur di far vedere che la sa lunga, anche se una simile posizione non esiste, interverrà con l'aria dell'uomo di mondo, esclamando: “Ma sì architetto, venga qui che gliela spiego io. Le faccio un disegnino sul tovagliolo. Però, il nostro avvocato, che sporcaccione, eh, chi l’avrebbe mai detto.... Conosce anche la 183..... È roba da intenditori..... Solo in pochi sono riusciti a portarla a termine senza fare danni”.
Comunque, come dicevo, il mio attuale compagno di avventura è l’avvocato Cesare.
Cesare è un caro ragazzo, lo conosco da anni, e da anni gli ripeto che lui e il diritto non potranno mai andare d’accordo, per una questione di DNA.
Innanzitutto - e qui correggo un’inesattezza detta all’inizio - non è ancora avvocato, ma “praticante abilitato”, perchè ha ripetuto l’esame per non so più quante volte.
La sua tenacia è ammirevole, lui non demorde, e ogni anno, puntualmente, a dicembre, si ritrova a ritentare la sorte alla Mostra d’Oltremare (è lì che si fanno gli esami di avvocato a Napoli).
Ormai è diventato un’istituzione. Ogni tanto lo prendo in giro dicendogli: "Di questo passo, un giorno, la Mostra d’Oltremare organizzerà una ... mostra su di te". Dopo la quinta bocciatura non ha più apprezzato il mio umorismo.
Ma lui comunque non si scoraggia. Si sente avvocato dentro. Basti pensare che sul biglietto da visita si qualifica “Avv.” da 6 mesi prima della laurea.
Va detto però che se Cesare non riesce a superare l’esame, ovviamente c’è un perchè.
Il diritto non l’ha mai digerito, lo considera una perdita di tempo.
Ama ripetere che ci sono due categorie di avvocati: i “topi di biblioteca” e gli “avvocati di strada”.
Io sarei un topo di biblioteca, perchè mi piace il diritto, mi piace studiarlo, approfondire, leggere, scrivere atti, ecc.
Lui è un avvocato di strada, perchè ha capito che l’importante è (testuali parole) “stare in mezzo alla gente”, “farsi vedere”, “darsi visibilità”, “essere sempre in trincea”, “stare sul pezzo”, “essere in prima linea”, ecc. ecc.
A volte mi ripete “Sì tu puoi essere anche bravo in diritto, ma se te ne stai sempre chiuso in studio con la capa nel codice, chi lo sa che sei bravo? Tu e il codice. Che non è certo un potenziale cliente”.
Ineccepibile.
Un avvocato di strada, invece, non ha tempo per leggere, studiare, scrivere atti, .... lui è in giro, “nei giri che contano”, pranza con Tizio, prende il caffè con Caio, dà un consiglio al volo a Sempronio, si imbuca nelle assemblee di condominio sperando che qualcuno voglia fare causa, ...
Insomma, io e Cesare abbiamo due “punti di vista” molto differenti sulla professione forense.
Eppure siamo amici.
Forse perchè, nonostante io sia il “topo di biblioteca”, alla fine è sempre alla porta di questa biblioteca che viene a bussare.
Eh sì, perchè va detto che finora la sua filosofia di “avvocato da strada” ha prodotto, come unico risultato, che Cesare è letteralmente in mezzo a una strada.
Quelli che lui chiama “giri che contano” sono 2 carrozzieri con piccoli precedenti penali che ogni tanto gli passano qualche causa per sinistro stradale, il più delle volte di dubbia provenienza e autenticità.
Quando dice che è importante saper dare consigli volanti a destra e a manca (“perchè è così che il cliente - spluf! - abbocca, se vede l’avvocato che ttà-ttà gli dà la risposta”), si riferisce alla salumiera che, mentre affetta il Parmacotto, gli mostra una multa per divieto di sosta, gelosamente conservata come una reliquia sotto il Galbanino, salvo poi decidere che è meglio pagare (“Eehh Cesarì, poi devo pagare pure l’avvocato. Ah, il prosciutto è venuto 40 grammi in più, che faccio, lascio?”); oppure al proprietario del bar dove Cesare va a fare “public relation”, che gli parla dell’infiltrazione dal piano di sopra e poi lo liquida con un “Vabbè mò ci penso e casomai ti richiamo. Ah, per il caffè sono 80 centesimi, l’hai già fatto lo scontrino?”.
Perchè quello che Cesare non dice è che, ogni volta che ha dato uno dei suoi consigli “volanti” (“Ma sì, qui mandiamo una lettera, facciamo la messa in mora, questo lo contestiamo, poi quest’altro lo impugno io, fai fare a me che gli facciamo un culo così. Che fortuna che hai avuto a incontrare proprio me oggi”), e il tizio ha poi effettivamente deciso di procedere, la risposta è sempre stata la stessa: “Grazie per il consiglio Cesare, ora ho le idee più chiare sul da farsi. Oggi vado dal mio avvocato e gli riferisco tutto, così partiamo con la causa. Ah, ovviamente tu hai un caffè pagato”. Nei giorni più fortunati rimediava un cappuccino. In tanti anni di “consigli volanti”, però, non ha mai raggiunto il tanto agognato traguardo: una colazione completa. Ogni tanto, a questo proposito, fa un lungo sospiro, fissa il vuoto (o, in alternativa, le tette di una che sta passando) e, col tono sconsolato da vecchio avvocato stanco e disilluso, ripete: “Sono queste le vere delusioni della professione. Tanti consigli gratis ma mai un cornetto gratis”.
Ovviamente quando fa così si consola solo se gli offro la colazione.
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